Nella sua omelia in piazza Vittorio a Torino Papa Francesco ha citato in italiano, con commozione, i versi di una poesia in lingua piemontese di Nino Costa, che sappiamo essergli particolarmente cara.

Ecco il testo integrale in piemontese e la traduzione italiana.

NINO COSTA  (1886-1945)

RASSA NOSTRAN-A

Ai Piemontèis ch’a travajo fòra d’Italia

 

Dritt e sincer, còsa ch’a son, a smìo:

teste quadre, polss ferm e fidigh san:

a parlo pòch, ma a san còsa ch’a dìo:

bele ch’a marcio adasi, a van lontan.

 

Saraié, murador e sternighin,

mineur e campagnin, saron e fré:

s’ai pias gargarisé quaich bota ‘d vin,

j’é gnun ch’ai bagna ‘l nas për travaié.

 

Gent ch’a mërcanda nen temp e sudor:

– rassa nostran-a libera e testarda –

tut ël mond a conòss chi ch’a son lor

e, quand ch’a passo… tut ël mond ai goarda:

 

“Biond canavsan con j’euj color dël cel,

robust e fier parei dij sò castei.

Montagnard valdostan dai nerv d’assel,

mascc ëd val Susa dur come ‘d martei.

 

Facie dle Langhe, robie d’alegrìa,

fërlingòtt dës-ciolà dij pian verslèis,

e bielèis trafigon pien d’energìa

che për conòssje ai va set ani e ‘n meis.

 

Gent ëd Coni: passienta e ‘n pò dasianta

ch’a l’ha le scarpe gròsse e ‘l servel fin,

e gent monfrin-a che, parland, a canta,

ch’a mossa, a fris, a beuj… come ij sò vin.

 

Tut ël Piemont ch’a va cerchesse ‘l pan,

tut ël Piemont con soa parlada fiera

che ‘nt le bataje dël travaj uman

a ten auta la front… e la bandiera”.

 

O bionde ‘d gran, pianure dl’Argentin-a

“fazende” dël Brasil perse ‘n campagna,

i sente mai passé n’ ”aria” monfrin-a

o ‘l ritornel d’una canson ‘d montagna?

 

Mine dla Fransa, mine dl’Alemagna

ch’ël fum a sercia ‘n gir parei ‘d na frangia,

vojautre i peule dì s’as lo guadagna,

nòstr ovrié, col tòch ëd pan ch’a mangia.

 

Quaich vòta a torno e ij sòld vansà ‘d bon giust

ai rendo ‘n ciabotin o ‘n tòch ëd tèra

e ‘nlora a ‘nlevo le soe fiëtte ‘d sust

e ij fiolastron ch’a l’han vinciù la guèra.

 

Ma ‘l pì dle vòlte na stagion përdùa

o na frev o ‘n maleur dël sò mësté

a j’anciòda ‘nt na tomba patanua

spersa ‘nt un camposanto foresté.*

 

*L’Autore allude al padre, come lui “biond canavsan con j’euj color dël cel”, morto oltre oceano in emigrazione.

Dalla raccolta Sal e peiver, Torino, ©Viglongo, 1998 (10° edizione). L’intera opera poetica di NINO COSTA è pubblicata da Viglongo in edizioni ricondotte agli originali, con presentazioni di A. Viglongo

Traduzione

Razza nostrana

Ai piemontesi che lavorano fuori dall’Italia

 

Dritti e sinceri, cosa sono, appaiono:

teste quadre, polso fermo e fegato sano:

parlano poco, ma sanno quel che dicono:

anche se camminano adagio, vanno lontano.

 

Magnani, muratori e selciatori,

minatori e contadini,  carradori e fabbri:

se gli piace “gargarizzare” qualche bottiglia di vino

non c’è però nessuno che sia più bravo nel  lavorare.

 

Gente che non risparmia tempo e sudore:

– razza nostrana libera e testarda –

tutto il mondo conosce  chi essi sono

e, quando passano… tutto il mondo li guarda:

 

“Biondi canavesani con occhi colore del cielo,

robusti e fieri come i loro castelli.

Montanari valdostani dai nervi d’acciaio,

maschi della val Susa duri come dei martelli.

Facce delle Langhe, rubiconde di allegria,

furbacchiuoli disinvolti delle pianure vercellesi,

e biellesi trafficoni pieni d’energia

che per conoscerli ci vuol sette anni e un mese.

 

Gente di Cuneo: paziente e un po’ lenta

che ha le scarpe grosse e il cervello fino,

e gente monferrina che, parlando, canta,

che spumeggia, frizza, bolle… come i suoi vini”.

 

Tutto il Piemonte che va a cercarsi il pane

tutto il Piemonte con il suo linguaggio fiero

che nelle battaglie del lavoro umano

tiene alto la fronte… e la bandiera.

 

O bionde di grano pianure dell’Argentina,

“fazende” del Brasile perse nella campagna,

non sentite mai passare un’ ”aria” monferrina

o il ritornello  di una canzone di montagna?

 

Miniere di Francia, miniere di Germania

che il fumo cinge in giro come una cortina,

voi lo potete dire se se lo guadagna,

il nostro operaio, quel tozzo di pane che mangia.

 

Qualche volta tornano e i soldi risparmiati onestamente

gli rendono una casettina e un po’  di terra

e allora allevano le loro figliolette assennate

e i ragazzoni che hanno vinto la guerra.

 

Ma il più delle volte una stagione perduta

o una febbre o una disgrazia del loro mestiere

li inchioda in una tomba ignuda

sperduta in un camposanto forestiero…

 

Rassa nostran-a è una delle Cento poesie di Nino Costa, pubblicate, su concessione dell’Editore Viglongo, in un volume della collana “La biblioteca di Papa Francesco, Corriere della Sera-La civiltà cattolica, 2014, con la Prefazione di Albina Malerba e Giovanni Tesio, che qui di seguito trascriviamo:

Nino Costa: come rileggere un classico alla luce di Papa Francesco    venuto dalla “fine del mondo”

Nino Costa (Torino 28 giugno 1886-6 novembre 1945) si può considerare per eccellenza il poeta di Torino e del Piemonte: il più conosciuto, il più amato. Capace di affascinare tanto Luigi Einaudi (che nel 1955 scrisse un’intensa presentazione alla raccolta completa delle sue poesie per le edizioni del Cenacolo) quanto i cuori più semplici che recitano a memoria i suoi versi, entrati a far parte di un vero e proprio genius loci, quando non di un culto naturalmente profano, di cui è stato l’editore Andrea Viglongo a cogliere in primis – e non a caso – la dimensione regional-popolare.

A patto che si tenga però conto di un dato essenziale: che Costa – pur partecipando dell’attività legata alla sua passione di poeta “in piemontese” – non si è mai rinchiuso in un regionalismo semplicemente emotivo e meno che mai grettamente provinciale, ma ha mirato ad aprire con la poesia le più ampie finestre al sentimento della vita (ossia poesia come vita che resta impigliata in una trama di parole). Oltretutto preferendo sempre far parte per se stesso, anche quando – come si dice – fu “tirato per la giacchetta” da questo o da quel gruppo: sia da chi mirasse alla perpetuazione dei modi più passatisti, sia da chi tentasse la sua riforma espressiva più modernamente concepita; cosa che accadde quando Pinin Pacòt, insieme ad altri, nel 1927 fondò la compagnia dei “Brandé” (in piemontese, gli alari, custodi del fuoco, della “fiamma che non si spegne”).

Nino Costa accompagnò l’esordio poetico dello stesso Pacòt, di cui – pur distinguendosene visibilmente, anche in ragione dell’età collocabile entre-deux-siècles – mostrò tuttavia di comprendere tutta la forza di novità (e Pier Paolo Pasolini proprio di qui prese le mosse per introdurre Le regioni del Nord nell’antologia allestita nel ‘52 con Mario Dell’Arco). Nemmeno esitò a secondarne le mosse, quando – facciamo un esempio soltanto – Pacòt nel 1930 concepì, per la Selp di Viglongo,  il disegno di un omaggio al provenzale Mistral non da tutti compreso (nell’occasione Costa scrisse La copà, che è un po’ l’inno poetico e corale di una Coupo Santo piemontese e piemontesista, forte di accenti rudi e gagliardi). Ma continuò a non parteggiare, com’era nella sua natura di uomo ad un tempo gentile e consapevole, almeno quanto era nella sua convinzione di depositario di una tradizione più popolare, da cui il più squisito versante dei “Brandé” prese tutte le sue distanze anche polemiche.

Né staremo su questo ad insistere, se non il tanto che basta a definire un carattere, a circoscrivere le dimensioni di un poeta molto più frastagliato e complesso di quanto non paia a prima vista. Ridurre, infatti, o restringere Nino Costa in un’identità forzosa di motivi e di toni sarebbe sbagliato. Se ci fu unità (e unità ci fu) si tratta di unità morale, di poesia che corrisponde a un’ineludibile ragione di impegno (anche civile), a contatto stretto con la vita che la motiva e a cui s’intreccia. Ma non fu unità di timbri e di registri. Non a caso il giudizio più completo su di lui lo dettò proprio Pacòt, il poeta “altro” ma complementare nella storia della poesia in piemontese.

Pacòt parla infatti di Costa come della “colonna sulla quale viene a posarsi l’arco del passato e dalla quale si slancia verso l’alto, l’arco dell’avvenire”. Specificando: “In lui confluisce nella sua pienezza la tradizione poetica nostrana nei suoi diversi momenti: il piemontese settecentesco, il nazionale brofferiano, il torinese del primo Novecento si fondono in armonia nella sua ispirazione. Donde la ricchezza di motivi e toni della sua poesia, dal popolareggiante di certe canzonette, dal moraleggiante delle favole al sentimentale di molti sonetti, al lirico di certi stati d’animo personalissimi, al canto eroico in lode del Piemonte e d’Italia. Opera abbondante, varia, dispersa e diseguale; ma poeta grande è quando, abbandonando gli ultimi preconcetti lasciatigli in eredità dai più immediati predecessori, versa l’anima sua nel melodioso abbandono di una confidenza mormorata in sordina, o quando (e qui si manifesta la più alta originalità) facendosi interprete dell’anima piemontese, eleva un inno alla sua terra”.

All’essenziale che qui è detto, solo aggiungeremmo di nostro – mirando soprattutto al libro ultimo e postumo, Tempesta – lo strazio di un cantore che dopo la morte sul Génévry del figlio partigiano, avvenuta nell’agosto del ’44, s’inarca nei singulti di un cuore paterno ma anche di un non arreso – e anzi più intensivo – orgoglio patrio.

Il giudizio forse più completo su Costa lo ha dato, in perfetta sintesi di motivi e di valore, Pinin Pacòt (Giuseppe Pacotto), il poeta “altro” che segna, rispetto a Costa, un percorso diverso e nello stesso tempo complementare nel panorama della poesia in piemontese del Novecento. Pacòt parla di Costa come della “colonna sulla quale viene a posarsi l’arco del passato e dalla quale si slancia verso l’alto, l’arco dell’avvenire”. “In lui – specifica – confluisce nella sua pienezza la tradizione poetica nostrana nei suoi diversi momenti: il piemontese settecentesco, il nazionale brofferiano, il torinese del primo Novecento si fondono in armonia nella sua ispirazione. Donde la ricchezza di motivi e di toni della sua poesia, dal popolareggiante di certe canzonette, dal moraleggiante delle favole al sentimentale di molti sonetti, al lirico di certi stati d’animo personalissimi, al canto eroico in lode del Piemonte e d’Italia. Opera abbondante, varia, dispersa e diseguale; ma poeta grande è quando, abbandonando gli ultimi preconcetti lasciatigli in eredità dai più immediati predecessori, versa l’anima sua nel melodioso abbandono di una confidenza mormorata in sordina, o quando (e qui si manifesta la più alta originalità) facendosi interprete dell’anima piemontese, eleva un inno alla sua terra”.

Tutti i critici leggono nell’opera di Costa la naturalezza della lingua, di una lingua “che ancora si sa” (se volessimo parafrasare al contrario ciò che ne sosteneva il congeniale Pascoli). Lingua poetica impregnata di forza “orale”, di domestica accentazione, di demotica derivazione, che lo stesso Pasolini – con onesto giudizio – definì “tersa” e “risparmiata”, non senza la giunta diminutiva: “qualche volta fino a riuscire insapore”. In verità in Costa (e, ripetiamo, nella sua mai smentita radice pascoliana) la sapidità resta sottilmente costante ancorché dissimulata,  essendo ben vero che le sue cose migliori sono sempre il frutto di un’attenzione al tempo, ai luoghi, ai paesaggi, agli umili protagonisti di un’epopea paziente estratti dalla storia di una terra che Costa ha ancora potuto cogliere ben viva, prima che le ombre di un’intera organizzazione sociale – dopo la seconda guerra mondiale e soprattutto negli anni a partire dalla metà dei Cinquanta – calassero a oscurarla. Una voce che può ancora ambire a essere intima e insieme corale, modulando un sentire tanto proprio quanto comunitario.

Poesia lirico-narrativa di valore universale, un “fil d’òr” (filo d’oro) intessuto nel tempo, nel solco di una tradizione antica e perfino gloriosa, capace di resistere al presente più desolato (o come è stato detto alla sua dittatura), e che invece si affaccia continuamente alla finestra di un mai esausto futuro. La sua poesia ci appare oggi – e potremmo provvisoriamente concludere con Riccardo Massano che meglio di tutti ne ha studiato lo svolgimento – in tutta la sua limpidezza, in tutta la sua rinnovata capacità “di darci la gioia della bellezza e dell’arte” e insieme – al netto di ogni retorica, che era del resto modalità profondamente lontana da un poeta galantuomo quale Nino Costa fu – il conforto di “un’alta lezione morale e civile”.

Come stupirsi, allora, che il piemontese-argentino Papa Bergoglio abbia imparato e ami i versi del poeta più nostro? In Argentina ci fu un tempo in cui nelle zone più profonde e remote – le zone strappate alla sterpaglia e coltivate da mani di emigranti piemontesi – il piemontese era la lingua “ufficiale”. Tanto che – come racconta De Amicis nel suo libro In America – “nel consiglio comunale si parla piemontese; i tedeschi, gli inglesi, i francesi che hanno affari con la colonia, bisogna che imparino il dialetto, e lo imparano” e perfino “una vecchia indiana, ravvolta in un mantello di cento colori, una strana faccia color di terra, gli occhi obliqui e fissi, e un  sorriso di fattucchiera” poteva rispondere in piemontese (“mai pì!, mai pì!”, ossia “ma no, ma no”) a una domanda di predizione metereologica.

Nino Costa non ha mai visitato i piemontesi d’Argentina, ma  nei versi di Rassa nostran-a, dedicata “Ai Piemontèis ch’a travajo fòra d’Italia” (e non solo lì) ha dipinto forse l’affresco più lucido e sicuramente appassionato del fenomeno migratorio legato al Piemonte.Una storia fino a poco tempo fa quasi priva di una narrazione, a differenza delle migrazioni dalle altre parti d’Italia: “Ò bionde ‘d gran, pianure dl’Argentin-a/ “fazende” dël Brasil perse ‘n campagna/ i sente mai passé n’ “aria” monfrin-a/ o ‘l ritornel d’una canson ‘d montagna?”  (O pianure d’Argentina bionde di grano,/”fazende” del Brasile perse nella campagna,/non sentite mai passare un canto monferrino/ o il ritornello di d’una canzone di montagna?)

Retorica? Non diremmo proprio. E diremmo piuttosto passione, passione ardente. Versi che recano una loro memoriosa luce di verità. E che anche oggi riescono come tali a motivare l’esplosione di gioia che ha “unito” in un attimo le due parti di mondo – la piemontese e l’argentina – alla notizia dell’elezione di Papa Bergoglio. Non ci sarebbe stato tanto contento senza la persistenza di una memoria non ancora oscurata e vinta dalla “dësmentia”, dalla dimenticanza.

Chi di noi ha incontrato l’Argentina di oggi e i piemontesi che vi si sono stanziati, plasmandone la terra e modificandone la rotta storica (se ha senso, come crediamo, non diremo di fare la storia con i se, ma di servirsene per ipotizzare i più diversi futuri) ha potuto constatare le tracce di una ben nota affermazione ancora di De Amicis: “L’opera gigantesca dei nostri, a cui un giorno o l’altro la storia dell’Argentina dovrà  solennemente pagare il debito di gratitudine”. Conosciamo troppo poco la bibliografia specifica per poter dire se questo sia avvenuto, ma basta un soggiorno non semplicemente turistico a far propendere per il sì. Senza i “piemontesi” d’Argentina, quella storia sarebbe stata un’altra storia, mentre è diventata una storia nostra, anche nostra.

Attraversato l’Oceano, è un po’ come trovarsi a casa: la cattedrale barocca di Córdoba, ad esempio, con i campanili illustrati dalle stesse “teste di indio” di Palazzo Carignano (non per nulla Córdoba è gemellata con Torino, e sarà anche perché, quali che siano le torsioni d’oggidì, in quella curva antica di Argentina c’è la Fiat). Ma la vera sintonia è nei volti, negli occhi, nei pensieri nei sogni di tante persone che portano i cognomi della loro origine. Incontri con gente d’aria nostrana, gesti, profili, andature delle terre di Piemonte, con un sorriso, una dolcezza in più. Storie scritte nella semantica dei nostri nomi: Casalis, Tribaudino, Antoniotti, Maccagno, Culasso, Tonda, Borda Bossana,  Quaglia, Barotto, Sandrone, Rossetto, Olivero, Martino, Filippa, Mina, Cambursano, Bussone, Bergoglio…

Ognuno è un luogo, un paese mai visto, un crocicchio di strade, di vite – la commozione dei nomi, come annotava Canetti – che raccontano luoghi. Tutto appare così lontano e ad un tempo così presente, così vicino. Basta citare pochi versi  di una poesia in piemontese e la voce riemerge dall’oblio con i suoi relitti di memoria a ricomporre quell’antica lingua sedimentata, non perduta: lingua che procede da amors de terra lonhdana, lingua sommersa, lingua recuperata dagli strati più segreti di esistenze che si sono fatte destino.

Ed è ancora Nino Costa a intessere il suo commento poetico: “Quaich vòlta a torno e ij sòld vansà ‘d bon giust/a-j rendo ‘n ciabotin ò ‘n tòch ‘d tèra/ e ‘nlora a ‘nlevo le soe fiëtte ‘d sust/ e ij fiolastron ch’a l’han vinciù la guera.// Ma ‘l pì dle vòlte na stagion përduva/ ò na frev ò ‘n maleur dël sò mësté/ a j’anciòda ‘nt na tomba patanuva/ Spersa ‘nt un camposanto foresté” (Qualche volta tornano e i soldi risparmiati onestamente /rendono una casettina e un po’ di terra/ e allora allevano ragazzine giudiziose / e ragazzoni che hanno vinto la guerra. // Ma il più delle volte una stagione perduta/ o una febbre o una disgrazia sul lavoro /li inchioda in una tomba ignuda / sperduta in un camposanto forestiero). Come deve essere accaduto al  padre del poeta, emigrato in Argentina, scomparso senza alcuna notizia.

Ecco allora, a fare da emblema – in una sorta di sineddoche del più ampio e inarrivabile universo – il piccolo Camposanto di Plaza San Francisco (una specie di abbandonato e palazzeschiano Rio Bo) isolato nella campagna, cerchiato da un muretto e da un silenzio ultimo. Appare improvviso come un’isola. Qui sono sepolti i primi piemontesi. Antiche pietre ormai scolorite, altre rinfrescate di recente, piccole tombe nella nuda terra, cappelle con  incisi i nomi di quanti, lì, nella più vasta solitudine, hanno visto il sorgere e il tramontare della loro seconda vita.

All’ingresso una lapide a ricordare Don Alejandro Sema, che con la moglie Doña Leonor Chianalino furono i primi immigrati piemontesi arrivati a Plaza San Francisco: “El Pueblo y Colonia de Plaza San Francisco rinde su homenaje a la memoria de Don Alejandro Sema y desde él a todos quines le acompañaron y sucedieron en esta gesta colonizadora”, e la lapide accanto: “Sus Amigos al noble iniciador del cultivo agrícolo en estas tierras generosas”.

E poi un rosario di Ferrero, Barberis, Quaglia, Garbarini, Blanda, Morra, Musso, Portaluppi, Filippa, Cornaglia, Borello in quel silenzio trascendente che contiene echi lontane di parole interrotte e pare solidificarsi – emblematizzarsi – nei nidi che l’indisturbato Ornero (Furnarius rufus) costuisce sulle tombe:  “En casa con nido de Hornero no cae el rayo” (sulla casa dove l’Ornero ha fatto il nido, non cade mai il fulmine) dice un proverbio della Pampa. Come deve essere stato morire così lontani dalla terra lasciata per altra terra, per un mare di terra, per un cielo stellato di altre stelle? Deve essere stato come morire la prima volta e consacrare con quella sepoltura la terra straniera, terra che per quel gesto diventa suolo di patria. In questo piccolo Camposanto si capisce la sacralità del morire. Qui è il posto che ha dato radici ai piemontesi d’Argentina, la terra  diventata la loro terra. E’ come toccare un inizio. Stare lì ha un valore apotropaico, è come toccare una fine che morde il suo principio in un salvifico cerchio di morte-vita.

Qui tutto è immenso: distese di terra, campi fin dove l’occhio si perde, piccole costruzioni accovacciate nella terra con il loro mulino a vento. È così che è cominciato. È qui che i “piemontesi” hanno plasmato la nuova terra, facendo memoria del posto lasciato, citando quel che si poteva citare, ripetendo ciò che si poteva ripetere. Terra per lavorare, terra per vivere, terra per sperare. A distanze infinite, comunità che si sono ricomposte scongiurando lo smarrimento di quell’orizzonte senza confini, di quello spazio che non patisce interruzioni di sguardo, soluzioni di continuità. Spazi e “soledades”. Tant’è che qualcuno s’è pur perso…

Ma quasi tutti sapevano i silenzi e la fatica, hanno ostinatamente resistito all’aggressione del nuovo silenzio sconosciuto, hanno vissuto, hanno procreato figli e accudito nipoti, e nella catena delle generazioni – il Piemonte ancorato nei cuori – hanno costruito l’Argentina e dato senso al loro domani.

Non a caso Papa Francesco ha fatto più volte riferimento a sua nonna Rosa, per la quale è irresistibile pensare alla poesia Mare Granda di Costa: “Mare Granda a l’ha sla schin-a/ pi dë stanta carlevé,/ ma le rëdne dla cassin-a/l’ha pa ancor lassaje andé:/ l’é ‘ncor chila ch’a comanda/ Mare granda/…/Ma a la seira ant la soa stansa,/ quand ch’a prega an ginojon,/tuta quanta la fiolansa/ l’ha sò pòst ant j’orassion:/un dòp l’àutr a j’arcomanda/Mare granda” (La nonna ha sulle spalle /più di settant’anni [carnevali]/ ma le redini della cascina/ non le ha ancora abbandonate:/ è ancora lei che comanda/ la nonna/…/ Ma  alla sera nella sua stanza,/ quando prega ginocchioni, / per tutti i suoi figlioli / c’è posto nella sua preghiera:/ uno dopo l’altro li raccomanda/ la nonna).

Mare granda non ci racconta “il mondo dei vinti”,  ma la forza del lavoro, della famiglia, dell’esempio che è scuola e direzione (dirittura) di vita. Mare granda è la sintesi semplice ed elevata della civiltà contadina, di cui oggi possiamo cogliere non più che qualche frammento. La catena delle generazioni si sposa alla catena delle virtù costruttive, di cui la religiosità concreta e sagace dei “santi sociali” e dei luoghi che ne testimoniano il passaggio (La Consolà, Don Bòsch, il Cotolengo) costituisce un lascito fondamentale. Le poesie religiose di Costa non fanno che prendere atto (e dare voce poetica) a una devozione che è stata a lungo popolare, come del resto altre pagine di altri scrittori contribuiscono a variamente testimoniare.

Eccola dunque l’epica dei piemontesi che sono partiti coi piroscafi forti delle loro sole braccia. Tra di loro anche qualcuno che qualche verso di Costa poté pure conoscere e portare con sé nella terra del riscatto. O che anche senza versi portò negli occhi e nel cuore ciò che i versi di Costa sono stati capaci di immaginare e di dire.

Gli avi contadini sono oggi diventati ingegneri, medici, professori, architetti, avvocati, che – appresa la lingua del “Fundador” – tornano a rendere omaggio alle loro radici, recuperando quanto resta dell’antico linguaggio custodito in una sorta di scrigno che lo ha protetto da contatti e intrusioni.  E il “cerea” di Papa Bergoglio, quando incontra qualche piemontese, diventa così molto più che un saluto; diventa una parola-chiave, di riconoscimento festevole e allusivo, di appartenenza e d’intesa, di complicità e di cordialità.

In quel saluto tutto nostro c’è una storia da scrivere. Una storia che con la poesia ha molto da spartire se oggi il “Vescovo” di Roma può indurci a rileggere con animo nuovo i nostri “classici”. Nino Costa prima di ogni altro.

Albina Malerba

Giovanni Tesio

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